Fin dove sei disposto a spingerti per il tuo lavoro? Cosa sei disposto a sacrificare per tenertelo o per fare carriera?

Negli ultimi giorni mi sono posta a lungo domande come questa. Dopo i fatti di Bruxelles, sede di molti congressi, conferenze e riunioni di multinazionali & Co, scelta per la sua centralità operativa nel cuore dell’Europa, ho subito associato la città, l’aeroporto e la linea metropolitana con il lavoro, conoscendo persone che vi si recano spesso proprio per le loro professioni, persone che erano lì in quei giorni. E allora mi sono chiesta: perché devo prendere un aereo, soggiornare in un hotel e pranzare in loco (e che spese raggiungono le aziende per queste trasferte!) per partecipare ad una riunione in un altro paese, quando posso tranquillamente prendervi parte con una conference call? Non sarebbe più vantaggioso per tutti, aziende e dipendenti, starsene comodi, ognuno nel proprio ufficio, oppure, perché no, alla postazione Pc di casa? Discutere amabilmente con persone che arrivano da tutto il mondo, senza viaggiare, la tecnologia adesso ce lo permette! Allora cosa vi spinge a muovervi da un capo all’altro del mondo, se virtualmente siamo tutti connessi?
Forse è un modo per strizzare l’occhio ai capi, sottolineando che voi per l’azienda siete disposti a tutto e farete tutto ciò che vi chiedono, anche se non serve a nulla, anche se ciò comporta lasciare famiglia e figli da soli per intere settimane e più volte al mese.
Sicuramente è un modo per far carriera e per guadagnare di più. O forse afferrate al volo ogni scusa buona per scappare e vivere altrove libertà e vite parallele, magari sfilandovi la fede dal dito mentre attraversate il gate!

Ovviamente la mia riflessione nasce dall’esame di una realtà particolare. Si tratta di lavori di un certo tipo e con un certo ritorno economico. Professioni etichettate da altisonanti nomi che non ci chiariscono mai perfettamente di che lavoro si tratti! Questi impiegati, manager, o chissà cos’altro, sono gli stessi che abusano delle parole inglesi, derivanti proprio dai loro ambiti lavorativi e le usano a sproposito, anche nelle cose di tutti i giorni, magari italianizzandole. Un esempio su tutti, con la parola che meno sopporto è “prendo le sportine brandizzate per far la spesa”….
Insomma sono quelli che lavorano solo loro, fanno cose importanti solo loro, ma quando gli chiedi di spiegarti le loro mansioni ti rimbambiscono di Packaging, Marketing, Account Executive, Art Buyer, Benchmark, Brain Storming, Core Business, Customer Relationship Management, Cross Selling, Content Manager, Product Developper,…e così via a nascondere il vuoto di certe posizioni lavorative con uno slang che cerca di far sembrare interessante ciò che in realtà non lo è.

Poi, però, mi sono messa a pensare ai lavoratori comuni, a noi che dobbiamo tirarci su le maniche e sudarci uno stipendio da fame che con la crisi non ci basta per mangiare, figuriamoci per vivere o per viaggiare. E noi, quanta parte siamo disposti a sacrificare di noi stessi e delle nostre vite per ottenere e mantenere un’occupazione? Derubati ormai di quasi la totalità dei nostri diritti non ci restano che doveri e sensi di colpa. Ci dicono che siamo comodi, pigri e svogliati. Che vogliamo troppo: salari troppo alti; pause pranzo troppo digeribili e pause pipì troppo dignitose; diritto ad ammalarci o a procreare. Ci dicono che siamo esagerati, non al passo coi tempi e dobbiamo smettere di pretendere. Continuano ad accusarci perché anche noi, figli di operai volevamo fare i dottori e ci hanno costretto a tornare a fare gli operai. Insomma, dobbiamo lavorare e basta. Leccare i piedi ai padroni, incensarli, dobbiamo votare per loro e contro i diritti che erano ormai acquisiti e sacrosanti. Dobbiamo scordarci le conquiste sindacali dei nostri genitori, le loro lotte, i loro sogni.

Se vuoi lavorare devi essere disposto a vestirti come vogliono loro; tagliarti i capelli alla misura che impongono loro (e non sto parlando della Corea del Nord), ma se sei donna devi farli crescere (e magari se sei una segretaria darla al capo aiuta); lavorare con 40 di febbre e legarti un catetere alla coscia. Poi dopo tre mesi di diritti negati, forse ti regalano altri tre mesi di precariato rinnovato, senza ferie, permessi, gioie e possibilità di ottenere un mutuo per iniziare la propria vita.
La tanto attesa assunzione sfuma, anzi no, adesso pare che stiano tornando i contratti a tempo indeterminato. Tanto ormai ti possono licenziare senza motivo, quando lo ritengono più opportuno!

Quindi? Siamo disposti ad accettare tutto questo. E lo abbiamo scelto noi. Abbiamo delegato tutto ai politici, abbiamo smesso di lottare, abbiamo smesso di capire cosa stava succedendo. I nostri cervelli sono andati in stand by. Abbiamo accettato i lavori a termine, la flessibilità, la globalizzazione delle merci e del lavoro, la delocalizzazione, i licenziamenti facili…isolando un po’ alla volta chi lottava veramente per noi. Abbiamo deciso che era più importante cambiare per vincere un’elezione, piuttosto che lottare per i nostri diritti. Il risultato è che adesso siamo tutti schiavi, pieni di doveri e debiti e non possiamo fare altre che lavorare come automi….non c’è che dire! Abbiamo proprio combinato un gran casino! La risposta alla domanda iniziale è che noi con un lavoro di merda i sacrifici siamo obbligati a farli per poter avere scampoli di vita, non certo per far carriera o per evadere dalle nostre vite!

Ma a questo punto mi pongo un’altra domanda. A qualificare una persona è l’essere o l’avere? È il lavoro che fa o la vita che fa? Che io sia CapaCiniCa la psicologa, o CapaCiniCa la giornalista, o CapaCiniCa la tata non cambia il fatto che io sia CapaCiniCa. A distinguermi come persona sono il mio carattere, le mie idee, il mio pensiero, il modo di rapportarmi agli altri, le emozioni e i sentimenti che provo. Poi c’è il lavoro.
Ecco per molti c’è il lavoro (e il loro lavoro è sempre più importante del tuo), poi c’è ancora il lavoro e l’essere realizzati attraverso il lavoro. Finiti gli orari di lavoro c’è ancora il lavoro e l’attesa del lavoro….persone che mettono il lavoro al primo posto e poi dopo, ma molto dopo c’è la famiglia. Per me, invece, il lavoro è solo un grosso problema. La vita è altro.