Ronald Reagan fu eletto presidente degli Stati Uniti nel 1980. Avevo 8 anni e ne fui sconcertata. Non mi piaceva. Perché un attore, fra l’altro un pessimo attore, dovrebbe fare politica? Perché mettere nelle mani di un pagliaccio una delle due superpotenze mondiali? Cosa nascondeva questa scelta?
Questa domanda mi ha assillato a lungo e qualche anno dopo mi si è ripresentata come quesito in una interrogazione di antologia latina al liceo. La mia prof di latino e italiano era solita farmi domande al limite, leggermente fuori tema. Premesso che tra lei e me non correva buon sangue e che molti miei compagni preferivano prendere impreparato, piuttosto che farsi interrogare alla cattedra insieme a me, immaginate lo sconcerto quando la prof mi chiese differenze e analogie tra Nerone e Reagan! Parlai per mezz’ora dei due “dittatori” sottolineando come Nerone si fosse dedicato alla musica e all’arte solo negli ultimi anni del suo impero e che non fosse così tirannico come veniva dipinto da alcuni storici. Nerone era comunque amato dal popolo, così come gli americani e gli europei amavano il Reagan attore. Gli Usa avevano bisogno di un nome nuovo dopo anni politicamente difficili. Scelsero l’attore, un uomo considerato lontano dal concetto classico di politica (nonostante fosse in politica già da tempo come Governatore della California). Per riavvicinare i cittadini alla politica si scelse la via dell’operazione simpatia e popolarità. Tanto la sua era solo una figura di facciata, come si conviene alla presidenza degli Stati Uniti, governati in realtà da ben altre forze.
Ovviamente lei mi disse che non avrebbe risposto così e mi mandò al posto con un 5 sul registro. Un voto dato ad una opinione più che allo studio, ma con lei era sempre così.

Tornando a Reagan, un volto rassicurante, noto a tutti e amato dall’americano medio, era una figura fondamentale per quello che stava per andare in scena. Dietro la sua faccia da grande schermo e il suo sorriso accattivante risorse, infatti, la storia del grande colosso a stelle e strisce. Si rimise in moto l’apparato militare e produttivo. Iniziò ufficialmente il reaganismo: una visione globale ed egemonica del mondo basata sul liberismo più sfrenato, sulla deregulation, la competizione del mercato ed un marcato individualismo, la corsa agli armamenti militari, rapporti stretti con l’Europa Occidentale e l’intensificarsi della guerra fredda con l’URSS. Con Reagan si studiò a tavolino l’idea della paura con il male assoluto interpretato dall’Unione Sovietica, dal Comunismo, e la creazione di fantomatici ed inesistenti scudi spaziali pronti a boicottare imminenti guerre stellari. La civiltà Occidentale del benessere e dei falsi bisogni venne fatta apparire come la migliore possibile, unico termine di paragone. Una società dove vinceva l’omologazione, nonostante si spingesse verso l’individualità, società in cui contavano l’avere e l’apparire e non l’essere. Contrapposta al blocco comunista mostrato come un apparato volto a triturare le libertà individuali e i diritti civili.

Il reaganismo, con la sua strampalata idea per cui libertà e liberismo sono la stessa cosa, fece proseliti in Europa e in Italia dove pullulavano yuppies competitivi e spietati, rampanti ed arrivisti, vuoti nelle loro teste, ma con portafogli sempre più gonfi. Contava arricchirsi, con ogni mezzo. Anche senza valori, senza idee, senza capacità, senza meriti e senza moralità. Egoismo, falsità e potere erano alla base di tutto. In Italia il reaganismo aprì le porte al craxismo e al sistema Craxi, svelato con le inchieste di Mani Pulite. La politica perse etica e moralità, ma con gli anni è calato l’oblio sui fatti di Tangentopoli e i mali del craxismo si sono ripresentati ancora più preponderanti con la caduta della Prima Repubblica. Così come Reagan serviva agli Usa, così in Italia si arrivò all’uomo di spettacolo che scendeva in campo per salvare la nazione dagli errori del passato e dalla politica di mestiere. Iniziò l’era del berlusconismo, dei conflitti di interesse, delle leggi ad personam, del mal governo e dello sfascio che hanno portato l’Italia a precipitare in un baratro dal quale non si vede più una via d’uscita.

Reagan è stato considerato tra gli artefici della “fine” del comunismo ed osannato da molti per questo, ma i rapporti tra Est e Ovest dopo il crollo del muro sono cambiati in peggio. L’Occidente ha inglobato l’Est in termini economici, sociali e politici e approfittando dello smarrimento ideologico del post comunismo lo ha assoggettato ai propri scopi, sfruttandolo economicamente a proprio vantaggio. Intanto i ricchi del mondo hanno continuato ad arricchirsi ed i poveri stanno diventando sempre più poveri.
Il reaganismo ha lasciato in eredità all’umanità un liberismo sfrenato che ha aperto la porta a scenari economici rovinosi. Il fare i soldi con i soldi, lo strapotere del mercato, il finanzcapitalismo, lo smantellamento delle garanzie nel mondo del lavoro, la guerra come elemento portante dell’economia degli stati, la libera circolazione delle merci (senza reali controlli) contrapposta alla creazione di nuovi muri e frontiere per impedire la libera e legittima circolazione degli uomini, la globalizzazione, la delocalizzazione…

La globalizzazione ci ha dato il colpo finale, letale. Attuata senza reali garanzie, presentata e creduta come imprescindibile per migliorare le condizioni lavorative, sia a livello di incremento di posti di lavoro, sia come miglioramento della qualità dei prodotti e confusa dalla massa con un modo per essere tutti più uniti e vicini. La velocità delle comunicazioni e la, presunta, libera circolazione delle informazioni non sono andate di pari passo con le opportunità di crescita economica, tanto millantate per paesi in via di sviluppo, né con le garanzie di stabilità e benessere per gli stati industrializzati. In realtà ha portato ad una omologazione sterile a cui non è seguita una globalizzazione di condizioni lavorative e di retribuzioni e ha concesso uno strapotere ai marchi economicamente potenti, alle grandi multinazionali che dettano legge distruggendo piccole realtà.
In compenso McDonald’s ha aperto in tutto il mondo! Che conquista! Il nostro italiano tipo, che gira il mondo con la valigia piena di pasta Barilla e una Moka, potrà viaggiare più leggero perché mal che vada potrà sempre ingozzarsi di McCadaveri, come se fosse in Corso Milano a Monza, anche se si trova in India! Perché amiamo così tanto la globalizzazione, ma guai a gustare le frittelle Pakora o gli involtini Samosa, tipici della cucina indiana, se possiamo ingurgitare McChicken!

Le industrie tentano costantemente di ridurre il costo del lavoro. Le produzioni sono state quindi delocalizzate in aree del mondo in via di sviluppo, nelle quali la mano d’opera è sottopagata e i produttori pagano meno tasse. I prodotti ottenuti, spesso, non sono nemmeno ben realizzati perché non c’è una adeguata preparazione dei lavoratori, oppure vengono usate materie prime di scarsa qualità. Prodotti che comunque vengono immessi sul mercato a prezzi elevati, tanto che le mani che li lavorano non ricevono salari adeguati da poterseli permettere. Prodotti a cui viene applicata l’etichetta made in Italy, e spesso è proprio solo l’etichetta che viene prodotta nell’ex Bel Paese. Prodotti che molti italiani non possono più comprare perché hanno perso il loro lavoro che adesso viene realizzato in Bangladesh da operai (spesso bambini) sfruttati, soprattutto nel tessile. Prendiamo, ad esempio, una industria del tessile che produceva nel ricco Veneto. Supponiamo che questa produzione, per intero, venga delocalizzata proprio in Bangladesh. I veneti che vi erano impegnati si ritrovano senza un lavoro e un po’ alla volta anche l’indotto finirà per scomparire. Per esempio una piccola ditta che produceva per loro bottoni non avrà più il suo committente che ormai prenderà in loco, delocalizzato, tutte le materie prime e gli accessori collegati alla sua linea produttiva. Ed è così che un intero territorio si ritrova impoverito e senza reali tutele e garanzie di ripresa.
La globalizzazione, o forse sarebbe meglio definirla Occidentalizzazione, non è altro che la libera circolazione di capitali e di merci che ha prodotto ed aggravato gli squilibri socioeconomici e ha reso la politica subalterna all’economia. Inevitabilmente ciò porta a continui periodi di crisi, alternati a periodi di ripresa sempre più brevi, da cui i poveri escono sempre più poveri e sempre meno tutelati.

Quindi, come uscire da questa spirale che inevitabilmente ci spinge sempre più in basso?
Poco cambia se gli Usa hanno come presidente un uomo nero, una donna bianca o un pagliaccio col parrucchino, sono ben altri i poteri forti che determinano le sorti del mondo, muovendo le marionette che governano i singoli stati…serve un radicale cambiamento, non degli uomini, ma di sistema. I cambiamenti reali arrivano dal basso, mai dall’alto. Riusciremo mai a capirlo? Riusciremo mai a smettere questa eterna guerra tra poveri per indirizzare la nostra forza contro i nostri reali nemici?
Ho paura di no….finché le merci saranno considerate più importanti degli esseri viventi, per noi non ci sarà mai speranza.