Avere o Essere? Perché questi due termini non sono solo due verbi ausiliari, ma due modalità esistenziali che possono indicare approcci alla vita diametralmente opposti.

Da piccola ero molto interessata a questo argomento e dicevo che sarebbe stato bello scriverci un libro, poi mi dissero che ci aveva già pensato Erich Fromm, così mi limitai a confrontare il suo punto di vista col mio e devo dire che il suo risultava, decisamente, molto più articolato. Fromm scrisse il suo saggio nel 1976 e io lo lessi qualche anno dopo, nell’estate del 1984. Ero una dodicenne e avevo appena terminato la prima media. Ovviamente non capii tutto, ma ne rimasi rapita e questa lettura mi influenzò molto sia nella formazione di un mio pensiero, sia per quelle che furono le mie scelte successive. Iniziai a leggere Sigmund Freud e mi avvicinai alle tematiche della psicologia. Approfondii il pensiero di Karl Marx, i cui scritti riempivano già la libreria di casa. Mi appassionai alla filosofia e iniziai ad amare la lettura, buttando le basi per divenire la lettrice bulimica che sono adesso.

Da allora sono passati tanti anni. Ho ripreso in mano “Avere o Essere?” molte altre volte, ma fin da subito capii la centralità del tema che trattava e fui colpita particolarmente da due citazioni:

“Meno si è, e meno si esprime la propria vita; più si ha, e più è alienata la propria vita” (Marx)

“Possesso.
Io so che nulla mi appartiene al mondo
Fuorché il pensiero, frutto imperturbato
Che vuol sgorgare dall’anima mia,
E ogni istante giocondo
In cui benigno un fatto
Di goder mi concede dal profondo” (Goethe)

Wow! La naturalezza e l’immediatezza del concetto espresso da Marx e la bellezza, la forza che scaturivano dall’immagine creata nella poesia di Goethe sono stati due fari che hanno illuminato il mio percorso di vita. Io sentivo quelle cose, le condividevo profondamente e ne ero ispirata.

Certo, in una scelta tra avere ed essere io ero, e sono tuttora, una privilegiata. Il compito di scegliere tra sostanza e apparenza, tra interiore ed esteriore, tra lo spirituale ed il materiale mi è stato notevolmente facilitato dal crescere in una famiglia che non navigava, certo, nell’oro! Scelta facile ed inevitabile, ma ne sono assolutamente felice e ripagata.

Non ho mai dato peso ai marchi e non ho mai sopravvalutato un oggetto. Le cose per me hanno valore se mi rappresentano qualcosa a livello emotivo o sentimentale, oppure valgono in funzione dello scopo per cui sono utilizzate, ma sicuramente non hanno importanza in quanto incarnazione di uno status symbol, o indicatori di lusso, o elementi di tendenza.
Possedere un certo oggetto non mi fa sentire migliore o importante perché regola la mia appartenenza ad un mondo particolare, ad un gruppo di consumatori o ad una élite. Un oggetto è solo un oggetto e non può accrescere il mio valore personale o la mia autostima, a meno che non sia un prodotto di mia invenzione e non abbia in qualche modo portato ad un certo miglioramento di vita per me e per gli altri.

Quando da adolescente ero circondata da coetanei invasati per la ridicola moda paninara, io mi rifugiavo nella più intimistica versione dark e cupa della vita. Mentre le mie compagne attaccavano le figurine fluo di Fiorucci sulle cartelle, io esibivo il simbolo della pace e l’adesivo con il mio no al nucleare. Mentre tutti ostentavano una divisa unisex, composta da jeans ascellari con risvoltini sopra la caviglia, felpe dai colori pastello, piumini lucidi e colorati e scarpe da barca e capigliature ondulate e permanenti improbabili e facce scurite da strati di terra colorata, io gridavo al mondo il mio disagio: “Non dovete classificarmi e giudicarmi per cosa indosso, né dovete condizionarmi ed appiattirmi nelle scelte comuni alla maggioranza. Io sono io e se volete conoscermi dovete andare oltre i miei stivaletti neri, i pantaloni neri e il maglione nero sformato; dovete cogliere i miei occhi scuri dietro i miei capelli perennemente spettinati, indisciplinati e privi di mollettine naj-oleari. Dovete ascoltare cosa ho da dire e non giudicarmi per il mio apparire o per quante cose possiedo.”

Ho sempre pensato che fossero le persone deboli e senza carattere, o timorose di essere respinte ed isolate, a nascondersi dietro gli oggetti che possiedono, comportandosi da eterni collezionisti di roba inutile. Si sentono forti perché parte di un tutto, perché sfoggiano status symbol comuni ad un gruppo di persone. Ma ciò che possiedono non basta mai e allora c’è chi si spinge a passare la notte in un sacco a pelo davanti ad un negozio, per essere il primo acquirente del nuovo i-phone, uguale identico al precedente, se non fosse che di lì a poche ore possedere il 6 farà di lui uno sfigato e sfoggiare il nuovo 7 farà di lui un figo agli occhi degli altri! Ma basta, veramente, un cellulare ultimo modello a dare a questi individui ciò che manca loro, a riempire i loro vuoti esistenziali? No. Allora aumenta il corredo della mela morsicata: i-pod, i-pad, i-mac, i-watch, i-tutto quello che trovi nel negozio, magari anche la i-t-shirt del genius che ci lavora….
Poi però servono altri beni di lusso da possedere per essere come gli altri, come il gruppo di fighi a cui vogliono assomigliare e magari si indebitano fino al collo per il nuovo Suv da cambiare ogni anno, naturalmente con vetri oscurati, così quando passano tutti si chiedono chi mai ci sarà in quell’auto! E poi non vuoi fare una vacanza vip sulle vette di Cortina in inverno e nei porti della Costa Smeralda in estate, e un weekend ogni tanto a Formentera, giusto per l’aperitivo, come fanno calciatori e veline….e poi? Poi il nulla. Perché avere tutte queste cose non ha soddisfatto reali necessità.

Avere, nel senso di possedere i beni necessari alla propria sopravvivenza, è una proprietà di tipo funzionale, utile, ma quando si va oltre questa accezione per finire nel mero possesso, acquisizione, ricchezza, superiorità, le cose cambiano. Se un uomo è prevalso dall’aspirazione all’avere imposterà il suo rapporto col mondo sulla base del possedere e dell’ottenere più cose possibili.
Essere prevalentemente orientati al possesso, all’avere, implica inevitabilmente una tendenza ed una facilità ad essere manipolati da chi detiene il potere…perché se riescono a farci sentire la necessità di un qualcosa che in realtà non ci serve, se riescono a orientarci nelle scelte e a condizionare i nostri gusti, riusciranno anche ad indirizzare le nostre opinioni, i nostri sentimenti, i nostri voti e ogni altra scelta che non sarà mai dettata dalla nostra individualità.

Invece, l’essere indica l’esistenza, rimanda all’essenza di una persona e non alla sua apparenza. Chi è più orientato all’essere, ed in buona sostanza ha una visione esistenzialista della vita, sarà in contrasto con il mero apparire, con il più sfrenato materialismo e contro un’omologazione di costumi, usi e pensieri.
Essere orientati e vivere, dando importanza all’essere e alla sostanza delle cose, indica una maggiore propensione alla concretezza, ma anche alla creatività, perché offre ad ognuno la possibilità di avere una propria visione delle cose e di farsi una propria idea di cosa serva o cosa sia superfluo, di cosa abbia realmente un valore per noi stessi. E, cosa molto importante, l’individuo orientato all’essere capisce che l’immediata soddisfazione di una falsa necessità materialistica, imposta dalla società consumistica, non ci apre la porta della felicità, ma solo di un fumoso piacere effimero che svanisce nel momento stesso in cui possediamo l’oggetto tanto bramato. E ciò spinge verso una spirale di false necessità da appagare che continuano a lasciare insoddisfatti gli accumulatori seriali di beni fuggevoli!

Bene, io ho sempre posseduto poco ed ho sempre dato poca importanza ai beni materiali, ma ho il mio pensiero che sgorga imperturbato dall’anima mia. Lo considero il bene più prezioso e lo custodisco con grande cura, perché mi rende un individuo unico e irripetibile e capace di emozionarsi ancora, come una dodicenne, al ricordo di una lettura fatta 33 anni prima!