Passione politica e storia, dal Cile al Venezuela.

“Cosa vuoi fare da grande?”
“Il sindaco!”

Questo rispondevo quando da piccola mi chiedevano le mie aspirazioni per il futuro. E in base alle passioni passeggere, del momento, aggiungevo anche altro: “il sindaco, ma prima voglio diventare un’astrofisica, andare nello spazio e fare da cavia al teletrasporto”; “il sindaco, ma vorrei anche fare l’archeologa e scoprire nuovi reperti etruschi”; “il sindaco, ma vorrei anche laurearmi in psicologia perché sono affascinata dalle infinite sfaccettature dell’animo umano!” Perché in me è sempre stato chiaro il concetto che la politica si fa per il bene della società e non è un mestiere. Quindi chiunque partecipi alla cosa pubblica deve comunque avere una professione a cui tornare, quando avrà terminato il suo percorso politico e la sua missione. Ero un’idealista e non sono cambiata molto da allora, anche se non sono diventata sindaco. La laurea in psicologia, però, l’ho presa davvero e non smetto mai di sbalordirmi, meravigliarmi e spaventarmi per cosa si possa annidare nella mente dell’uomo.

La mia passione per la politica, comunque, non mi ha mai abbandonato, anche se detesto la stragrande maggioranza dei politici di oggi e il loro modo, diciamo fantasioso e spesso raccapricciante, di gestire una materia tanto delicata e difficile.

Spesso chi mi conosce mi chiede perché, nonostante io sia cresciuta a pane e politica, non mi sia mai buttata nella mischia. Ammetto che io stessa mi sono ritrovata a chiedermi la stessa cosa.
Eppure da piccola frequentavo la sezione del Partito con mio nonno. Stavo alla cassa delle Feste d’Unità con mia mamma e collezionavo le coccarde adesive che ci davano all’ingresso. Vendevo porta a porta l’Unità la domenica mattina. Ho sempre visto telegiornali e tribune elettorali, accalorandomi per chi sosteneva le mie idee. Ho sempre saputo cosa succedeva a livello amministrativo nel mio paese e all’estero, chiedendo e leggendo. Ho guidato il funerale di mio nonno, nei primi anni 80, mettendomi in testa al corteo laico, in mano una calla e fermandomi fiera, davanti alla sede del Partito, mi sono commossa davanti alla bandiera rossa listata a lutto e ho alzato il pugno chiuso. Ho sempre parlato liberamente delle mie idee, anche sapendo che ciò non mi avrebbe aiutato e ne ho pagato il prezzo fin da piccola, grazie alla mia odiata maestra elementare.
Ho da sempre una visiona chiara e semplice di cosa sia giusto e sbagliato e di come vadano in realtà le cose dietro riflettori e vuoti comizi. Vorrei tanto che persone come me si occupassero in prima persona di politica. E allora perché non lo faccio io?

Riflettendoci a lungo ho capito che mi sono allontanata dal mio desiderio di amministrare una città perché non ho mai vissuto abbastanza a lungo in una città, per poterne rappresentare i bisogni e capirne la realtà. Sono andata via a 19 anni dalla città in cui sono nata e cresciuta per studiare. Ho vissuto 6 anni in Emilia Romagna, troppo pochi per entrare a farne parte, attivamente, del tessuto sociale; poi c’è stato un breve ritorno in Toscana, troppo breve per poterlo sfruttare; infine è stata la volta della provincia di Monza che non mi ha mai realmente accettata e di cui riesco a percepire ben poco, se non una grande freddezza. Insomma, al di là dei sogni di bambina, il sindaco deve conoscere a pieno il territorio che amministra, deve far parte della storia di quel posto per aiutare veramente e fare il suo lavoro in modo onesto. Forse se non fossi mai andata via da casa e avessi vissuto sempre nello stesso posto, mi sarei candidata sindaco, ma ovviamente, stando all’estrema sinistra chi mi avrebbe votato? In tanti dicono che mi avrebbero votato comunque, stimandomi come persona, anche se non ero in linea con le loro idee. Ma sinceramente sono solo parole vuote, inutili. Io non voterei mai un sindaco fascista, nemmeno se è un amico, nemmeno se fosse una persona pregevole, anche perché io non potrei mai stimare chi porta avanti idee fasciste. Ovviamente nemmeno gli prometterei il mio voto!

La cosa più complessa è capire perché io non abbia mai pensato alla politica a livello nazionale. E la risposta che mi do è che ho sempre avuto paura che mi avrebbe fagocitata e, forse, distrutta. Non sono mai stata brava a mediare, sono sanguigna. Sono poco incline al compromesso e non sarei mai riuscita a confrontarmi in modo pacifico, ad esempio con qualche politico fascistello, un po’ bulletto, insomma, uno di quelli che vanno tanto di moda adesso.
Immaginarmi in un salotto tv, a discutere con uno di questi arrivisti della politica, quelli che magari hanno il papi con la fabbrichetta in cui i lavoratori vengono sfruttati, sottopagati, oppure ci sono anche immigrati tenuti a nero; o con uno di quelli che gridano “prima gli italiani” e dentro si rode perché non può più dire “terroni di merda” altrimenti, se il suo partito perde i voti del sud, non può più governare…. mi fa venire i brividi! Finirei per gridare come una pazza invasata, vomitando fuori tutto il mio disprezzo e le mie verità. E apparirei esattamente come una di loro, una fanatica e per di più, come dicono loro, una zecca comunista e radical chic, isterica! Chissà, forse finirei per incatenarmi in Parlamento, per manifestare a favore di un qualche diritto inalienabile e pesantemente calpestato… avrei solo l’imbarazzo della scelta!
Eviterei, al momento, una possibile carriera politica perché sono, francamente, infastidita da questo modo di farla, la politica. Una continua campagna elettorale; comizi twittati; insulti sessisti alle donne in politica; presenza di partiti e movimenti di cui chiederei fortemente lo scioglimento perché anticostituzionali; giornalisti servi dei partiti di Governo, incapaci di andare oltre i proclami e di fare il loro lavoro scavando nelle notizie…

Forse un giorno, in futuro, cambierò idea. Invecchiando sto diventando un po’ più riflessiva e chissà, magari, riuscirò ad essere meno impulsiva. Ne dubito, ma mai dire mai.
Boh! Forse nella politica non ci credo nemmeno più come una volta. Non credo più alla buona fede dei politici. Sono sempre più consapevole del fatto che le cose spesso non sono come le vediamo. Datemi pure della complottista, ma chiunque abbia chiara la nostra storia interna e la storia politica del mondo avrà spesso avuto dei dubbi su alcuni avvenimenti. Spesso dietro un’ elezione, o un colpo di stato, o l’ascesa improvvisa di un gruppo politico, ci sono manovre esterne che tutelano interessi più grandi e neanche tanto nascosti.

Mio nonno mi diceva sempre che dietro ogni elezioni si nascondevano interessi che andavano oltre il benessere e i voti di una nazione. E per spiegarmi queste dinamiche usava sempre un accadimento storico che nella vita, poi, ho sempre usato, anche io, come metro di valutazione: 11 settembre 1973, colpo di stato in Cile.

Questo evento tragico fu l’atto conclusivo di un piano orchestrato a più mani che portò alla morte del legittimo Presidente del Cile, Salvador Allende, e alla sanguinosa dittatura di Augusto Pinochet. Allende fu eletto nel 1970 alla presidenza del Cile e il suo programma di riforme, battezzato La via cilena al socialismo, non fu ben accolto dagli Stati Uniti, tanto che la Cia e l’amministrazione Nixon si impegnarono in ogni modo a destabilizzare il governo cileno. Appoggiarono segretamente e finanziarono gli oppositori interni, tra cui i proprietari terrieri che volevano impedire gli espropri e le nazionalizzazioni previste da Allende. Una serie di scioperi paralizzarono il paese. Iniziarono i camionisti (generosamente sovvenzionati dalla Cia), poi gli imprenditori e i sindacati dei professionisti. Alla fine si unirono agli scioperi alcuni gruppi studenteschi. L’economia iniziò a vacillare. L’inflazione saliva e la mancanza di materie prime, causata dall’embargo imposto dagli Usa e dallo sciopero dei camionisti, fece aumentare i prezzi. Anche i prodotti alimentari avevano prezzi sempre più alti e, nonostante Allende aumentasse i salari per ridare potere d’acquisto al popolo, le difficoltà non si riuscivano a risanare.
Anche la Chiesa Cattolica si opponeva ad Allende e i soldi per finanziare le attività sovversive arrivarono inoltre da molti partiti cristiani, a partire dalla nostra Democrazia Cristiana.

Un primo tentativo di golpe fallì nel giugno del 1973. Ma la situazione interna era sempre più calda e il generale Pinochet, l’uomo che Allende riteneva degno di fiducia, l’11 settembre dello stesso anno guidò l’esercito (del quale era stato nominato comandante neanche un mese prima) contro il suo Presidente. Assediarono il Palazzo Presidenziale, che fu attaccato via terra e via aria. Allende morì nel palazzo e il suo governo fu rovesciato. Iniziò così il terribile regime di Pinochet. Gli oppositori venivano torturati e poi diventavano Desaparecidos, alcuni dei quali, ancora vivi, furono gettati nel mare, giù dagli aerei. Molti bambini, figli degli oppositori furono rapiti e affidati a famiglie vicine al regime. Fu un lungo periodo di terrore.

La Cia ha più volte affermato di non esser stata la mano esecutrice del golpe, ma è chiaro che ne abbia creato le condizioni. Alcuni atti firmati da Henry Kissinger, consigliere per la sicurezza nazionale e segretario di stato degli Stati Uniti durante le presidenze Nixon e Ford, dimostrano un pieno coinvolgimento degli Usa per rovesciare Allende.
Le parole di Kissinger sono chiare: “Non vedo perché dovremmo restare con le mani in mano a guardare mentre un paese diventa comunista, a causa dell’irresponsabilità del suo popolo. La questione è troppo importante perché gli elettori cileni possano essere lasciati a decidere da soli.”

L’obiettivo era naturalmente economico: impedire la nazionalizzazione delle imprese straniere, soprattutto quelle dell’industria del rame, che rappresentava la massima, se non l’unica, esportazione del Cile. Bastò il boicottaggio dell’esportazione del minerale per togliere ossigeno all’economia cilena e mettere in ginocchio il paese.
Nonostante, nei discorsi ufficiali, gli Usa non approvassero il regime di Pinochet, sottobanco ripresero i rapporti tra i due stati ed è emerso che molti uomini del dittatore erano a libro paga della Cia.

Ho conosciuto una famiglia di cileni che avevano un negozio a Cesena, sotto casa mia. Mi hanno raccontato quegli anni. Riuscirono a scappare dal Cile, ma toccarono con mano il regime disumano e oppressivo che segui al golpe. Confermarono ogni parola del racconto che mio nonno aveva fatto alla me bambina. I camionisti pagati dalla Cia per scioperare. Gli scioperi che servivano doppiamente: per mettere in crisi l’economia cilena e per far vedere al mondo esterno che i cileni erano tutti contro Allende. La realtà era diversa. Il popolo, nonostante la crisi economica, era con Allende e i suoi consensi aumentavano.
Ho letto molto sul golpe e sui tre anni di presidenza Allende. Ho visto documenti filmati impressionanti. Ho letto i Kissinger Cables. Ho ascoltato le testimonianze di chi ha vissuto quegli eventi. E, lo ammetto, ho gioito il 10 dicembre del 2006, alla notizia della morte di Pinochet….
Mi capita sempre più spesso di pensare al Cile e il mio pensiero è sempre lo stesso: chissà quante volte è stato replicato il modello Cile!
Quanti partiti in ascesa sono stati messi a tacere? Quanti governi sono stati osteggiati e ribaltati da complotti stranieri? Quanti colpi di stato nascondono ingerenze di paesi stranieri?

Mio nonno mi ha sempre detto che era veramente strano che il PCI non avesse mai vinto un’ elezione, soprattutto in alcuni momenti particolari della storia italiana. Sicuramente la Cia avrebbe fatto tutto il possibile per evitare l’affermazione dei comunisti in Italia. Le parole usate da Kissinger per il Cile possono applicarsi a qualsiasi stato e in Italia nacque Gladio, organizzazione appartenente alla rete internazionale Stay-behind (stare indietro) contro il comunismo europeo. Fu organizzata dalla Cia per contrastare un’eventuale invasione Comunista nell’Europa occidentale da parte dei paesi aderenti al Patto di Varsavia. Gladio aveva il compito di agire attraverso atti di sabotaggio, guerra psicologica, strategia della tensione, infiltrazioni e atti di terrorismo. Il tutto con l’aiuto dei servizi segreti e di altre strutture (come la P2 e associazioni di stampo mafioso).

Recentemente, però, c’è una situazione particolare che ricorda molto da vicino il modello Cile. Lo ricorda così tanto che mi stupisco di come possano riconoscere solo in pochi la stessa mano, le stesse dinamiche e i passi quasi ricalcati. Come è possibile che anche fior fior di giornalisti non ritrovino nel “caso” Venezuela una situazione analoga a quella del Cile anni 70?
Sono tutti così ligi nel raccontare quello che gli viene detto di dire, senza approfondire, senza verificare, senza collegare, che risultano veramente imbarazzanti. Un giornalista dovrebbe vestire i panni di uno storico moderno e non può raccontare i fatti del mondo considerandoli a compartimenti stagni. Solo conoscendo ciò che è stato, possiamo capire meglio quello che sta succedendo sotto i nostri occhi. Purtroppo la storia è sottovalutata e si perde la capacità di raccontare la realtà, tanto da non riconoscerla quando si ripresenta uguale a come già è stata.
L’immediatezza dei social media sta raccontando piccoli segmenti, senza un prima, senza un dopo. C’è un costante “durante” privo di contesto e per questo soggetto a qualsiasi manipolazione. Non basta far vedere un camion in fiamme per capire chi lo ha incendiato.

Forse questa storia che mi porto dentro fin da bambina è il motivo per cui mi appassionano la politica, la storia e le interconnessioni.
Forse questa storia che mi porto dentro fin da bambina è il motivo per cui non farò mai politica, per non esser manipolata in nessun modo da questa tendenza ad avere visioni parziali.
Sicuramente questa storia che mi porto dentro fin da bambina è il motivo per cui sono disillusa e cerco in ogni accadimento cosa c’è dietro e chi ne muove i fili. Basta chiedersi “a chi giova questo?” e le risposte e i dubbi che vengono fuori ci aprono la mente a percorsi diversi, difficili, ma fondamentali.

Ad esempio, sapete che il Venezuela è ricco di coltan (columbo-tantalite)?

Se una volta faceva gola il rame del Cile, adesso molti sognano di mettere le mani sul petrolio del futuro, di cui sembra essere pieno il sottosuolo del Venezuela. Si, perché il coltan, l’oro blu, è una miscela di minerali da cui si può estrarre il tantalio, raro, ma prezioso. È fondamentale per l’industria elettronica e serve a ottimizzare il consumo della corrente elettrica nei chip di nuovissima generazione permettendo la costruzione di condensatori ad alta capacità e dimensioni ridotte usati, ad esempio, nei telefoni cellulari e nei computer. Il valore commerciale del tantalio, e quindi del coltan, è molto elevato, le richieste sono in aumento e i giacimenti africani sono già super sfruttati. La situazione in Congo è drammatica con lo sfruttamento dei bambini nelle miniere di estrazione da una parte e l’intreccio con la guerra civile dall’altra, con i guerriglieri che usano il coltan come merce di scambio con organizzazioni criminali per avere armi. Quindi si capisce come riuscire a mettere le mani su un altro stato, tanto ricco di coltan, sia molto interessante dal punto di vista economico.

Ma se in questo stato vige un sistema economico socialista, fatto di nazionalizzazioni, come possono stati e multinazionali assicurarsi l’oro blu?

Io la risposta la conosco e voi?