Un, due, tre, stella! Cerchi, triangoli, quadrati e calamari.
I simboli e la violenza ci raccontano la moderna Corea del Sud.
(Contiene spoiler)

La Corea del Sud ha iniziato a raccontarsi al mondo attraverso la macchina da presa e stanno aumentando gli estimatori dei prodotti sia sul grande sia sul piccolo schermo.
Ed è stato così che anche la serie tv Squid Game, contro ogni previsione iniziale, è stata un successo mondiale.
Una storia che poteva incuriosire, ma neanche più di tanto, eppure l’abbiamo vista tutti e ne hanno parlato anche quelli che non l’hanno vista.
456 individui accettano di partecipare a una serie di giochi per vincere dei soldi. Sono persone che per un motivo o un altro hanno ne hanno bisogno, sono poveri, sono delinquenti, persone che hanno perso tutto con investimenti sbagliati, disperati o malati. Sono un gruppo eterogeneo, uomini e donne, giovani e vecchi.

Il primo episodio è un pugno nello stomaco. I protagonisti si apprestano a sfidarsi in un gioco infantile che tutti conosciamo, a cui tutti abbiamo giocato infinite volte da piccoli. Magari ci stanno affiorando alla mente dei ricordi, ma all’improvviso il gioco diventa crudele e sanguinario.
I colori pastello che ci hanno portato al gioco, i ricordi felici della nostra infanzia vengono spazzati via dal sangue. Ed è stato scelto intenzionalmente un gioco internazionale, il nostro un, due, tre stella! L’anglosassone red light, green light. Scelto come primo gioco per catturarci, farci tornare bambini. Hanno stuzzicato la nostra curiosità con le scale color pastello che ricordano Relativity di Escher e il Muro Rosso di Bofill. Scale che salgono e scendono senza apparente via d’uscita. Tutto allegro, anche se un po’ inquietante, ma niente avrebbe fatto presagire quello che stava per succedere. Poi…boom! Dalle nuvole disegnate sui fondali che ci ricordano i quadri di Magritte ci siamo ritrovati catapultati dentro L’urlo di Munch. L’impatto devastante con la realtà! Arriva l’eliminazione fisica per chi sbaglia. Arriva la violenza, fredda, sanguinante, agghiacciante. Senza appello.

La violenza si sussegue negli episodi, si auto-genera, si amplifica. Puntata dopo puntata ci ritroviamo ad abituarci alla morte, alla violenza, tutto diventa normale all’occhio di chi osserva. Arriviamo a patteggiare per alcuni, ad odiarne altri. I personaggi sono poi molto enfatizzati nei loro tratti distintivi. Lo stronzo è veramente molto cattivo; l’ingenuo lo è in maniera veramente infantile: la pazza è disperatamente sopra le righe; e così via. Ma ci sono tutti, tutti i tratti umani sono rappresentati. E noi spettatori arriviamo fino a sperare che il prossimo a morire sia uno di quelli che più ci stanno antipatici. Ormai siamo assuefatti. Siamo nel gioco.

C’è un momento, però, in cui torniamo umani. Quando i giocatori si cimentano, a coppie, con le biglie, altro gioco che abbiamo fatto tutti, e scoprono che saranno l’uno contro l’altro e dovranno eliminare la persona che avevano appena scelto per fare squadra. Sorgono le prime difficoltà, emergono i tratti di pietà, di altruismo, ma poi predomina l’istinto di sopravvivenza e vengono messe in atto le strategie, anche le peggiori, per vincere. Ma non è così per tutti. C’è chi sfrutta il tempo di gioco per raccontarsi, condividere, sciogliere la propria freddezza apparente, dire il proprio nome.

Noi spettatori, impotenti, assistiamo al dimezzarsi dei protagonisti principali. Iniziamo a reagire con rabbia per chi ha ingannato i più deboli e a intenerirci per chi si è sacrificato. Ma il cedimento definitivo lo abbiamo con l’arrivo dei Vip. Il vero motivo dell’esistenza di questi giochi. Ricchi, potenti, occidentali, ingordi grassoni nascosti dietro maschere di animali. Hanno una loro sala da cui assistono ai giochi, nella quale ci sono uomini e donne nudi, pitturati come la tappezzeria dei divani, che fungono da tavolini, poggiapiedi, lampade. Oggetti spersonificati. E ci sono i camerieri che vengono anche scelti per appagare sessualmente i ricchi, a loro piacimento. Sfarzo e follia delle élite che richiama alla memoria le scene dell’onirico Eyes Wide Shut di Kubrick o la reale, e allo stesso tempo inquietante, famosissima festa che i Baroni Guy e Marie Hélène de Rothschild tennero il 12 dicembre 1972. Il cui dress code esigeva cravatta nera, abiti lunghi e teste surrealiste. I servitori erano vestiti da animali, la baronessa indossò una testa di cervo che piangeva diamanti e bambole o donne semi nude giacevano come centrotavola o decorazioni.
Insomma ricchi che si divertono a guardare la morte, che godono della disperazione delle persone che, molto probabilmente, loro stessi hanno contribuito a far impoverire e investono soldi, tanti soldi, scommettendo su chi vince o chi viene eliminato.
A questo punto lo sguardo dello spettatore recupera la lucidità e il gioco passa in secondo piano. La situazione ci fa schifo perché fino a quel momento a guardare i giochi c’eravamo noi e ci credevamo innocenti, ma adesso siamo smascherati. Adesso siamo noi gli occidentali che guardano e si divertono e, svelati, ci vergogniamo del nostro ruolo passivo. Basta! Non vogliamo che muoia più nessuno, vogliamo solo fermare il gioco. Vogliamo, caso mai, gettare i Vip nel precipizio!

E allora iniziamo a capire cosa c’è dietro, andiamo oltre la violenza e cogliamo i messaggi: Squid game è una denuncia, piena di simboli e di citazioni colte, artistiche, contemporanee.
In una società incentrata sul capitale e sulla ricerca spasmodica di soldi, i protagonisti del gioco tornano ad essere schiavi che lottano tra di loro o vengono sbranati dai leoni per sollazzare l’imperatore e la sua corte.

Squid game è lo specchio estremizzato della società capitalistica coreana, nella quale è sempre più forte e discriminante la diseguaglianza economica e sociale.
Persone isolate, senza più un contatto con la realtà, in un luogo in cui si annullano le loro identità, in cui si viene definiti da numeri. Non ci sono più regole esterne, leggi e norme sociali di comportamento. Ci sono solo le regole dei giochi. Un luogo in cui tutti sono uguali e hanno tutti la stessa necessità di sopravvivere. Questa è la situazione in cui si trovano i giocatori, che non hanno più niente da perdere, come succede nella società moderna per i disperati, i poveri che sono costretti a lottare con altri poveri per non soccombere alla disperazione.
Nel gioco per vincere non devi morire. E per rimanere in vita devono essere gli altri a morire, in una inevitabile spirale di violenza. Come succede per i disperati delle periferie impoverite e abbandonate. Nel gioco emergono le personalità vincenti e quelli senza scrupoli si uniscono in gruppi forti, lasciando indietro i più deboli, le donne, i vecchi. Così come succede nella società coreana.
I giochi infantili rappresentano il come eravamo, la civiltà, i valori, le tradizioni. La vecchia società coreana. La violenza dell’eliminazione rappresenta il cambiamento, l’imbarbarimento dell’essere umano in una società che sembra fare passi avanti e si autodefinisce innovativa, moderna, tecnologica, efficiente, ma in realtà sta peggiorando la vita di molti a vantaggio di pochi ricchi. Le élite. I Vip. Lo scontro tra come eravamo e come siamo è devastante.

La Corea del Sud è ricca, tecnologicamente all’avanguardia, i suoi prodotti sono venduti in tutto il mondo, ma questa sua veloce ascesa economica ha creato una voragine, una spaccatura drammatica tra ricchi e poveri, tra benessere e disperazione.
Dietro la modernizzazione e il miracolo economico, dietro i colossi dell’industria automobilistica o elettronica ci sono bassi salari, una scarsa protezione sociale, anziani con pensioni da fame, donne che faticano ad accedere al mondo del lavoro e quando vi arrivano sono comunque sottopagate e spesso molestate.
Dietro la facciata di paese smart, dietro una delle capitali più moderne del mondo c’è la disperazione di un popolo povero e consapevole dell’impossibilità di migliorare la propria condizione economica.
Dietro auto elettriche sempre più performanti e smartphone che fanno ormai tutto per noi c’è un sistema che prende di mira i sindacati rendendo i lavoratori privi di tutele e ammortizzatori sociali.
Dietro la realtà virtuale dei videogamer professionisti e la musica k-pop c’è un inferno da cui il 75% dei giovani vorrebbe scappare e uno dei più alti tassi di suicidi al mondo, e a suicidarsi sono soprattutto gli anziani soli e abbandonati a loro stessi.
Dietro il paradiso tecnologico e sfavillante c’è disoccupazione, corruzione, lavoro irregolare, competizione e pressione scolastica e ci sono milioni di coreani che lottano per sopravvivere, mentre le élite fanno soldi alle loro spalle, grazie ai loro sacrifici. Poche famiglie ricche e potenti che manovrano i fili del monopolio capitalistico corrotto e stanno sopra le leggi.
È emblematico il caso del Ceo di Samsung, Lee Jae-yong, condannato a due anni e mezzo di reclusione per corruzione e appropriazione indebita che ha scontato nemmeno la metà della pena ed è stato rimesso in libertà perché il governo coreano ne ha riconosciuto il ruolo fondamentale per l’economia del paese, in barba alle leggi dello stesso!

I giovani scontenti della situazione in cui stanno vivendo hanno coniato una serie di termini per descrivere e criticare la realtà coreana: inferno Joseon (dal nome di una vecchia dinastia regnante ad indicare che le condizioni nei secoli non sono migliorate affatto) o il più palese inferno Corea.
Non è un caso, quindi, se il titolo del secondo episodio della serie è proprio Inferno. L’episodio ci narra la disperazione dei giocatori che, dopo aver votato in maggioranza la fine del gioco ed esser tornati alle proprie vite reali, non hanno altra scelta che rientrare in gioco. Devono fuggire dalle sofferenze, dal degrado della realtà perché in quell’inferno non hanno più vie d’uscita, mentre il gioco offre loro almeno una, unica ed estrema, possibilità di salvezza. Come viene sottolineato dal Frontman stesso più avanti nel gioco: “sono persone che hanno subito discriminazione e ingiustizie. Qui diamo loro l’ultima possibilità di lottare alla pari e vincere.”

Ne esce una Corea estremamente gerarchica come si vede dalla struttura organizzativa del gioco.
Alla base della piramide ci sono gli sfruttati, cioè i giocatori, con la loro divisa bianco verde. Poi ci sono le tute rosse, le guardie. I lavoratori col cerchio rosso, i soldati con il triangolo e i supervisori che indossano il quadrato. Ci sono i reclutatori che vanno in giro a cercare i disperati da inserire nei giochi e sono vestiti da imbonitori, uomini d’affari col completo e il sorriso stampato, un po’ venditori d’auto un po’ agenti immobiliari, per capirci.
Poi c’è il Frontman, l’uomo in nero, rigorosamente mascherato come fosse un cattivo della Marvel. Colui che si interfaccia con i Vip. E sopra di lui il Leader con maschera dorata che rappresenta una testa di gufo, da sempre simbolo di saggezza.

Personalmente ho amato un solo personaggio, la vera spina nel fianco della Corea del Sud. Kang Sae-byeok, ovvero la numero 067, la ragazza che viene dalla Corea del Nord in cerca di una vita migliore che, dopo una vita di espedienti, partecipa al gioco per poter portare via il fratellino da un orfanotrofio e sogna di riunire la sua famiglia. Per lei si sacrifica, nel gioco delle biglie, l’altra giovane ragazza, Ji-yeong, in qualche modo due spiriti affini che si sono scelti. Sae-Byeok si presenta indurita dalla vita, fredda e insensibile e si rivela, invece, come il personaggio più sensibile e positivo. L’unica che non usa espedienti e che alla fine, condannandosi alla morte, dice basta alla violenza. Lei che scappata dal Nord si ritrova nell’inatteso e inospitale inferno del Sud. Insomma Nord 1 – Sud 0.

A vincere il montepremi di 45,6 milioni di won è, ovviamente, il protagonista. Il numero 456. In qualche modo lo sappiamo dall’inizio, ma la sua vittoria ha l’amaro in bocca. Lui si rifiuta di vincere, ma alla fine deve prendere atto del suo destino. Non trova la felicità e deve riscattarsi. E cerca di farlo aiutando le famiglie delle due persone con cui ha condiviso la parte finale del gioco. Vedremo se attraverso di lui gli autori cercheranno di riscattare l’intera società coreana.

Finiti i giochi non finiscono però le drammatiche scoperte. Aprire gli occhi sulla reale identità del Leader è la mazzata definitiva che fa vacillare. Lui, il vecchio e malato numero 001, per cui avevamo provato tenerezza nel vederlo umiliato e stanco. Lui è colui che ha orchestrato tutto. È colui che ha creato il gioco per intrattenere e far divertire i super ricchi annoiati come lui. Una delle basi della tradizione coreana, il rispetto per gli anziani deboli, ma saggi, si sgretola e ci fa perdere definitivamente le speranze di salvezza, anche se forse non tutto è perduto. Forse non tutti stanno fermi a guardare la società che si impoverisce e muore. Forse c’è ancora un briciolo di umanità.

In attesa dell’annunciata seconda serie, voglio solo invitare i genitori a smetterla di dare colpe ai programmi violenti per i comportamenti dei loro ragazzi. Se i loro figli li imitano, come nel caso di episodi di bullismo emulativo post Squid game, sono solo loro i responsabili, perché non hanno la capacità di capire cosa i ragazzi possono o non possono guardare in tv. E non hanno la benché minima autorità sui propri figli o sono poco attenti e li lasciano da soli davanti alla tv senza l’adeguato supporto.
Troppo facile dare la colpa ad un prodotto chiaramente indirizzato agli adulti. Prendetevi le vostre colpe.